venerdì 5 luglio 2013

E se sognassimo di meno?


Ciao lettori! Oggi vi posto il racconto con cui mi sono classificato in seconda posizione al concorso di narrativa " Pietro Piazza ", organizzato nella mia scuola.

Il tema sono i sogni che ogni immigrato porta con sé nella sua vita. 
Sogni che non riguardano solo l'immigrato, ma ogni essere pensante.


E se sognassimo di meno?

C’è sempre un sogno nella nostra vita. Il sogno di luogo in cui i progetti possono essere realizzabili, un luogo che possa finalmente dare gli elementi per ripartire da dove si è fallito, un luogo in cui si può cullare ogni desiderio e dove la nostra disperazione può essere cancellata.          
La storia del mio amico Thomas è la storia di un gran sognatore; lui viveva di sogni. 
Originario del Congo, così come mi disse in uno dei nostri incontri, Thomas aveva impugnato un Kalashnikov all’età di 7 anni. Giocando, combatteva contro entità a lui sconosciute, ma che gli erano state imposte come nemiche. A lui non importava tutto ciò, la sua unica preoccupazione era guadagnare pochi spiccioli per garantire un po’ di cibo a sua madre e ai suoi quattro fratelli. Suo fratello Mohammed era scappato di casa, senza dire nulla a nessuno. Thomas credeva che sarebbe tornato, prima o poi. 
All’età di 13 anni, si era procurato una larga ferita sulla fronte a causa di un combattimento corpo a corpo, e aveva cominciato a non sopportare più ciò che faceva. Sognava altro.Crebbe e fu accusato di pensare; non voleva più far parte delle milizie. Nessuno lo accettò più. Il villaggio dove viveva, la famiglia, tutto ciò che era per lui la vita sembrò voltargli le spalle inevitabilmente. 
A 16 anni cominciò il suo esilio.                                                                                              
Si spostò di nazione in nazione, poiché sognava di lavorare in Tunisia.  Lì trovò ciò che desiderava, un’esistenza più libera e l’occasione di rifarsi.Thomas lavorò in un negozio di tessuti come magazziniere, poiché presentava una vistosa cicatrice nella fronte, che si era provocato a 13 anni, e non era adatto per la vendita ai clienti. Si accorse che guadagnava troppo poco, e non poteva avere altro che delle limitate razioni di cibo da mangiare nella sua baracca costruita con pannelli prelevati qua e là tra le discariche.
Durante la sua permanenza in Tunisia sentì delle storie riguardo alla possibilità di spostarsi verso l’Italia, dove ogni africano poteva godere dello stile di vita occidentale e cambiare definitivamente la condizione sociale. Fu così che decise di imbarcarsi in quello che sembrava l’ultimo viaggio della sua vita. 
All’età di 18 anni, Thomas fu ancora una volta schiavo dei suoi sogni. Viaggiò di notte insieme ad altre decine di persone. Scorse negli occhi dei suoi vicini sognatori le stesse emozioni che infervoravano lui e che lo avevano portato nella situazione in cui si trovava. Fu scosso dall’incontro con una madre che allattava la sua piccola creatura. Il bambino piangeva, piangeva continuamente tanto da infastidire Thomas, che non sentiva piangere qualcuno da quando sua madre aveva capito che non voleva più far parte delle milizie. Quel pianto sembrò determinare la prima minaccia che Thomas avvertì nel flusso costante dei suoi sogni.
Arrivò in Sicilia e si spostò a Palermo insieme ad altri immigrati; aveva sentito che a Palermo c’era una comunità di Congolesi che poteva aiutarlo ad integrarsi. Accade qualcosa di inaspettato. In comunità gli dissero che avevano conosciuto un ragazzo molto simile a lui, di nome Mohammed, che si era trasferito a Roma da due mesi. Suo fratello. 
Fin dalla prima volta che era partito, non aveva mai pensato che fosse possibile incontrare nuovamente il fratello; aveva digerito il suo allontanamento come qualcosa di ordinario, non era la prima volta che ciò accadeva nel suo villaggio originario.  La notizia lo convinse a spostarsi per l’ennesima volta, dopo aver raccolto del denaro lavorando in un negozio gestito da cinesi a Palermo.
 Alle porte dei suoi 19 anni, l’occasione di ricominciare in compagnia del fratello lo stimolava ancora una volta a credere che qualcosa di meglio era possibile, che qualcosa di più bello era alle porte e che la sua esistenza poteva finalmente raggiungere stabilità. 
Roma si presentò ai suoi occhi con tutta l’imponenza dell’enorme città che aveva immaginato; le sue strade, la sua gente, le sue luci sembravano per lui il compimento di una vita. Capita quando non abbiamo altro in cui credere. 
Anche questa volta, Thomas fu schiavo dei sogni.
Quei sogni che ormai diventavano mostruosi burattinai capaci di deviare la coscienza di Thomas verso scelte irrazionali, scelte che ormai determinavano soltanto l’irrefrenabile illusione di un uomo che in realtà inseguiva qualcosa che egli stesso non sapeva definire, come i nemici dei combattimenti a cui aveva partecipato quando era un bambino soldato. 
Incontrò Mohammed in una casa di periferia, in cui viveva con altre cinque persone. Non si abbracciarono; il saluto fu freddo. Mohammed aveva lasciato Thomas con un fucile in mano, e questa immagine si presentava tagliente agli occhi del fratello, che quasi lo identificava ancora in quel modo. Si raccontarono a vicenda. Thomas scoprì che stava inseguendo qualcosa che anche il fratello aveva da sempre sognato. Ciò non gli provocò piacere per la condivisione di un destino comune, ma piuttosto lo fece rattristare, perché cominciò a comprendere i risultati negativi che i sogni potevano provocare, al punto che tutto ciò che aveva provato all’arrivo a Roma sembrava essere svanito nel nulla. Infatti, Mohammed lavorava sul Lungo Tevere, vicino Castel Sant’Angelo. Vendeva sciarpe, cappelli, guanti e cianfrusaglie sulla sua bancarella personale. Quando si alzava un po’ di vento o sopraggiungeva il maltempo, la bancarella, instabile, cadeva e tutta la merce finiva per terra, costringendo Mohammed ad affrettarsi per raccogliere ciò che vendeva. Un po’ come la sua vita. E’ lì, presso la bancarella del fratello, che per la prima volta incontrai Thomas. 
Un freddo pomeriggio d’inverno avevo deciso di comprare un paio di guanti di lana e mi fermai proprio dove Thomas lavorava con il fratello. 
Mi parlò con un italiano che mi fece subito sorridere, perché presentava un forte accento africano che lo rendeva buffo, tanto che accorgendosi dell’ilarità che aveva suscitato, anche lui si mise a ridere. 
Dopo il primo incontro, passai più volte da Castel Sant’Angelo. Ad ogni occasione lo salutavo, e capitava di fermarmi per chiacchierare con lui.  Il 1° Maggio andai al concerto che si tiene a Roma ogni anno, per passare una piacevole serata con gli amici. Lo incontrai tra la folla, vendeva ombrelli. Mi chiese perché c’era quel concerto, ed io risposi che quel giorno era la festa del lavoro. Thomas mi rispose che doveva lavorare per tutta la serata. 
Lo incontrai altre volte sul Lungotevere, e parlammo ancora per più tempo. Attraverso alcune frasi che mi disse compresi quanto era travagliata la storia di Thomas, ed è per questo motivo che decisi di farmi raccontare tutto su di lui, poiché mi interessa capire quali sono i problemi che affliggono gli immigrati. 
Ma lui aveva qualcosa che suscitò particolarmente il mio interesse. Ogni volta che raccontava un pezzo della sua storia, il suo viso si velava cupamente di infelicità e sofferenza, fino a diventare assente.  Capii che sognava così tanto che non si svegliava mai. Troppe le speranze che aveva riposto nei sogni, così tante che si innalzò fino a non toccare più la realtà. Parlava solo di sogni, speranze, cosa voleva essere. Non era più nessuno e la sua anima sembrava essersi dissolta nel flusso incessante dei sogni che sempre lo avevano accompagnato.




Davide